La gente invece di andare verso il mercato o al fiume, si
era assiepata sul bordo della strada.
Stava aspettando sotto un cielo così basso che le nuvole erano
tanto vicine da poterne ascoltare il respiro carico del rammarico del sole
svanito.
Albertine escluse che fosse l’apparizione di qualche santo o
della madonna.
<<Quelli appaiono solo ai ricchi e in posti comodi.
Non a Ngao. Qui al massimo ci viene il demonio.>> sentenziò mentre
gettava ai polli i manghi troppo maturi.
Il demonio aveva l’aspetta di un nano. Non da circo ma da
altezza pigmea. Aveva un sorriso da
venditore di cianfrusaglie da suk, portava abiti lisi troppo grandi che non erano
mai stati suoi e impartiva ordini da capocomico a una pattuglia sbilenca di solerti
aiutanti tra cui un bianco che aveva portamento da donna, un asiatico e un
meticcio che parlava solo portoghese. Arrivarono con un monumentale camion carico
di mobili d’ufficio e qualche branda.
Il nano si presentò come Armando Purgias de Rivera e si
qualificò come banchiere spagnolo che aveva servito sua maestà il re di Spagna
e quello di Danimarca. Sembrava più una
réclame da ciarlatano e salpava in discorsi da sproloquio da fine del mondo,
raccontando di avere circumnavigato il globo otto volte e di avere avuto più donne di un attore americano. Zenone sapeva che le parole di un uomo se lette attentamente svelano il senso del destino scritto sul fondo dell’anima; anni dopo ammise al
prefetto Pangala che quel raggiro di natura, non era spagnolo ma italiano e si
era dato un nome da orchestrale solo per abbindolare la gente.
Si installarono presso la concessione Van de Britte, il fiammingo rosso di capelli che aveva abbandonato Ngao vent’anni prima per
trasferirsi in Sudafrica. Il prefetto inviò uno dei suoi vice per sapere cosa
facesse quella ciurma da circo in un posto del genere. Armando Purgias consegnò
la copia di un regolare contratto di affitto per un anno della concessione, la
licenza di commerciante e un permesso per aprire una banca.
<<Una banca? A Ngao? E per cosa?>> esclamò con
un sorriso da caimano il dottore Nzambe Ndo che si vide perso in un
guazzabuglio da giudizio universale. Dopo aver impiegato anni per spiegare cosa
fosse la sifilide, adesso ce ne sarebbero voluti altrettanti per spiegare cosa
fosse una banca.
Dopo qualche giorno, il nano, come tutti lo chiamavano, fece
inchiodare una targa sul porticato della concessione: “Banca di commercio e risparmio di Ngao. Prestiti e depositi. Tutti i
servizi per rendervi ricchi e felici”
Il venerdì successivo, durante la settimanale visita del
prefetto Pangala, Zenone gli chiese a quale tipo di pazzia appartenesse l’idea
di aprire una banca in un posto come Ngao. Pangala, dopo aver esplorato tutte
le possibili ragioni che potevano spingere un uomo a precipitare in un delirio
da ubriaco come quello di aprire una banca a Ngao, rispose come suo solito.
<<Ha un regolare permesso. Ma so già che questo
signore ci creerà dei problemi. In questo posto ho affinato una propensione
divinatoria nel presentire i guai. Promette cose che la gente non conosce. Dice
che se affideranno i loro risparmi alla banca, potranno raddoppiarli in tre mesi,
ossia quadruplicali in sei e in un anno immagini lei.>>
Zenone annusò il miasma del raggiro peggiore: quello fatto
ai poveri. Si sentì riprecipitato ai tempi di Aurelio e della guerra a
Loffredi.
<<È una truffa monsieur Zenone. Farà solo danni. Va fermato prima che
rubi quel poco che la gente ha. Promette di trasformare il valore del deposito
in equivalente in oro. Chi firma il contratto si impegna a non richiedere
indietro i soldi per un anno. Io non ho soluzioni ma lei sa bene come fare.
Confido nella sua saggezza.>>
Inizio Alphonsine e poi Daniel. Poi venne il turno di Jean e
arrivò anche Caroline senza parlare di Mokila e tutta la sua famiglia. Tutti
volevano ritirare i soldi che ogni mese lasciavano depositati da Zenone che rivalutava
in dollari per tenerli al riparo dell’inflazione. Zenone cercò di
dissuaderli ma fu inutile. Alla fine decise di riunire tutti sotto il grande mango suonando la
campana che era attaccata alla magnolia in centro al cortile.
Guardava tutti negli occhi e loro guardavano Zenone. Spiegò che Purgias era solo un truffatore da strapazzo e faceva promesse che non avrebbe mai rispettato. Una volta raccolti tutti i soldi se la sarebbe svignata di notte
lasciandoli sprofondare nella miseria senza ritorno. Ma qualcuno ribatté che era una
grande occasione e che Purgias aveva loro mostrato come era facile guadagnare:
bastava lasciare i soldi a lui e sarebbero stati moltiplicati. E per convincerli aveva mostrato le lettere e le foto della ricchezza accumulata dai suoi clienti di Kisangani, Kananga e perfino Beni. Fu una
discussione lunga e complicata perché Zenone dovette ammettere che i sogni sono i peggiori avversari della ragione. Alla fine, facendo appello alla
sua autorità da uomo senza paura, chiese a tutti di aspettare due giorni.
Avrebbe incontrato Purgias per capire esattamente di cosa si trattasse e quali garanzie offrisse.
Tutti erano convinti che Purgias fosse il miracolo mandato dal cielo in quel Macondo africano che era Ngao; ma la parola di Zenone
era come un baobab. Forte
e possente. Autorevole e con un peso immenso.
Zenone non perse tempo perché in guerra aveva imparato che
il tempo è solo una delle tante variabili che segnano il confine tra la vita e
la morte. Chiamò Janbulani e gli disse di portare un messaggio a Purgias con il quale in modo gentile ma fermo lo invitava a cena per la sera
stessa.
Janbulani ritornò con un messaggio dell’invitato. Si
dispiaceva ma non poteva accettare. Se avesse trovato il tempo
lo avrebbe fatto volentieri la settimana successiva.
Zenone richiamò Janbulani e scrisse un nuovo messaggio che
era un presagio: “Signor Armando Purgias
e tutto il resto di come si fa chiamare, lei stasera sarà mio ospite. Si
prepari per tempo e disdica ogni altro impegno. Me ne sarà grato.”
Alle sette Purgias si presentò nella concessione ed era in
preda ad una furia da marinaio scalmanato. Era un nano che urlava e strepitava
senza ritegno non avendo appreso nulla dello spirito africano. Era impaziente
di litigare con qualcuno per rivendicare un suo personale diritto ad essere
rispettato come fosse un santo benefattore. Rifiutò sdegnosamente l’invito di Janbulani di aspettare
in pailotte. Il vecchio gli rimandò uno sguardo di commiserazione: sapeva che il nano si stava avviando su una cattiva strada, la peggiore. Mettersi contro Zenone. Purgias continuò a urlare, bestemmiare, insultando Zenone chiamando in causa perfino la sua povera mamma.
L’uomo sudava sotto il sole di Ngao e il colletto della
camicia denunciava il suo stato di eterno lottatore con i bagni e le docce.
Aveva un viso solcato dalle linee della menzogna, un sorriso scialbo e nei suoi
occhi galleggiava l’odio perenne verso un destino che lo aveva fatto nascere
mezzo metro più basso di ogni altro uomo. Nzambe Ndo sentenziò che oltre ad
essere veramente nano non ne possedeva nemmeno la virtù nascosta che tanti nani vantavano. Anzi si mormorava
che si portasse a letto quel suo amico bianco che lo seguiva ovunque come un
barboncino. Indossava una giacca troppo grande, lisa e unta, consumata sul collo e
pantaloni troppo lunghi che pestava di continuo. Zenone lo osservò dal grande
salone e facendo ricorso alle sue antiche conoscenze da guerriero sulfureo
decretò che l’uomo era solo un maledetto nano che aveva il cuore troppo vicino,
troppo vicino al buco del culo, come aveva scritto un grande poeta, quindi ne decretò l’inizio e la fine quella stessa sera. Uscì da una porta secondaria e
andò dal Prefetto Pangala che lo stava aspettando perché tra loro si inviavano
segnali premonitori. Pangala guardò Zenone sapendo già cosa aveva in mente.
<< Lo cacci via. Io non lo posso fare, ho un ruolo da
difendere, devo salvare le apparenze, ma lei può. Nessuno se la prenderà con
lei. Lo può anche uccidere. Per quel che vale. È solo un nano. Si ricordi solo
di gettare il cadavere ai coccodrilli.>>
Nel frattempo Purgias, sempre più in preda ad una collera senza
ritegno, entrò deciso in cucina. Si ritrovò
faccia a faccia con il peggior nemico che potesse incontrare nel suo destino da
jellato senza tempo e senza misura. Albertine impugnava il machete e stava
facendo a pezzi un’antilope che i cacciatori gli avevano appena consegnato.
Guardò il nano con i suoi occhi neri da regina di Saba e vi decifrò la sventura
unita alla carognaggine.
<<Chi cazzo sei tu? Come ti permetti di entrare nella
mia cucina?>>.
<<Serva di merda, dov’è il tuo padrone?>>
L’offesa la fece scattare come una tigre. Il colpo di
machete staccò un pezzo di orecchio al nano che si mise ad urlare come un
maiale sgozzato. Albertine ne senti il
fetore mentre cercava di fuggire ma lo bloccò contro il muro che dava sul salone
con l’intenzione prima di sgozzarlo e poi farlo a pezzi dandolo in pasto ai
cani del quartiere.
Quando Zenone entrò nella stanza lesse negli occhi della
donna l’odio per l’uomo che stava per sgozzare e nell’uomo la indegnità della
prossimità della morte. Albertine individuò nello sguardo di Zenone i segni
premonitori della bestia feroce in caccia.
Il manrovescio di Zenone, che portava sempre l’anello d’oro con
smeraldo che gli aveva regalato sua madre, si abbatté sul viso del nano con una
forza da uragano tropicale. Pugias volò a terra come una pelle di fico e sentì
il proprio sangue uscire dal profondo taglio che l’anello gli aveva procurato unirsi
al dolore per il pezzo mancante di orecchio che gli aveva mozzato Albertine.
Lo scarpone di Zenone iniziò a premere sulla carotide dell‘uomo che rantolava
e chiedeva pietà.
<<Se io la uccido qui e adesso nessuno saprà mai
nulla. Ucciderò lei e ucciderò anche i suoi compagni. E ucciderò tutti quelli
che verranno a cercarla. Vi ucciderò tutti. Poi getterò i vostri corpi di merda
nel fiume dove i coccodrilli faranno il loro lavoro. Ma lei è un uomo fortunato: da tempo ho deciso che
la morte è una compagna che non voglio più avere. Lei sa chi sono. E quindi non
sfidi il destino. Lei se ne andrà ora e non tornerà mai più. Le dò tre ore di
tempo per lasciare Ngao. Se la troverò ancora qui fra tre ore la consegnerò a Janbulani che la legherà ad un albero nella foresta. Qui le iene sono particolarmente affamate.>>
L’uomuncolo si alzò dolorante respirando a fatica. Albertine gli
diede una pedata nel culo e Janbulani lo buttò come un sacco di immondizia in
mezzo al cortile dopo aver liberato Juge, il ferocissimo pastore
alsaziano che vegliava di notte sulla concessione. L'animale corse verso il
nano con gli occhi iniettati di sangue mostrando i lunghi denti. Ad un ordine
di Janbulani, Juge, come fosse dotato di un meccanismo, si arrestò a meno di un centimetro dalla gola del nano che piangeva come un bambino.
La notte sentirono il camion che usciva dal villaggio;
seppero qualche giorno dopo che al di là del fiume Purgias e il suo circo erano
stati attaccati da uomini armati, catturati, fatti a pezzi e gettati in pasto
alle iene.
Zenone chiese a Monsieur Socrates chi fosse stato.
<< Un uomo avido è sempre destinato a morire malamente perché ha
seminato odio e miseria. Nessuno lo commisera. Poco importa chi lo ha tolto di mezzo. Ha fatto solo
del bene.>>
<<Soprattutto se è un nano avido.>>
<<Bien sûr
monsieur Zenone. Soprattutto se è nano e avido.>>
Risero e stapparono una bottiglia di bordeaux. E fecero
festa con tutta la concessione.
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