lunedì 8 gennaio 2018

Il nano

La gente invece di andare verso il mercato o al fiume, si era assiepata sul bordo della strada.
Stava aspettando sotto un cielo così basso che le nuvole erano tanto vicine da poterne ascoltare il respiro carico del rammarico del sole svanito. 
Albertine escluse che fosse l’apparizione di qualche santo o della madonna.
<<Quelli appaiono solo ai ricchi e in posti comodi. Non a Ngao. Qui al massimo ci viene il demonio.>> sentenziò mentre gettava ai polli i manghi troppo maturi.
Il demonio aveva l’aspetta di un nano. Non da circo ma da altezza pigmea.  Aveva un sorriso da venditore di cianfrusaglie da suk, portava abiti lisi troppo grandi che non erano mai stati suoi e impartiva ordini da capocomico a una pattuglia sbilenca di solerti aiutanti tra cui un bianco che aveva portamento da donna, un asiatico e un meticcio che parlava solo portoghese. Arrivarono con un monumentale camion carico di mobili d’ufficio e qualche branda.
Il nano si presentò come Armando Purgias de Rivera e si qualificò come banchiere spagnolo che aveva servito sua maestà il re di Spagna e quello di Danimarca. Sembrava più una réclame da ciarlatano e salpava in discorsi da sproloquio da fine del mondo, raccontando di avere circumnavigato il globo otto volte e  di avere avuto più donne di un attore americano. Zenone sapeva che le parole di un uomo se lette attentamente svelano il senso del destino scritto sul fondo dell’anima;  anni dopo ammise al prefetto Pangala che quel raggiro di natura, non era spagnolo ma italiano e si era dato un nome da orchestrale solo per abbindolare la gente.
Si installarono presso la concessione Van de Britte, il fiammingo rosso di capelli che aveva abbandonato Ngao vent’anni prima per trasferirsi in Sudafrica. Il prefetto inviò uno dei suoi vice per sapere cosa facesse quella ciurma da circo in un posto del genere. Armando Purgias consegnò la copia di un regolare contratto di affitto per un anno della concessione, la licenza di commerciante e un permesso per aprire una banca.
<<Una banca? A Ngao? E per cosa?>> esclamò con un sorriso da caimano il dottore Nzambe Ndo che si vide perso in un guazzabuglio da giudizio universale. Dopo aver impiegato anni per spiegare cosa fosse la sifilide, adesso ce ne sarebbero voluti altrettanti per spiegare cosa fosse una banca.
Dopo qualche giorno, il nano, come tutti lo chiamavano, fece inchiodare una targa sul porticato della concessione: “Banca di commercio e risparmio di Ngao. Prestiti e depositi. Tutti i servizi per rendervi ricchi e felici”
Il venerdì successivo, durante la settimanale visita del prefetto Pangala, Zenone gli chiese a quale tipo di pazzia appartenesse l’idea di aprire una banca in un posto come Ngao. Pangala, dopo aver esplorato tutte le possibili ragioni che potevano spingere un uomo a precipitare in un delirio da ubriaco come quello di aprire una banca a Ngao, rispose come suo solito.
<<Ha un regolare permesso. Ma so già che questo signore ci creerà dei problemi. In questo posto ho affinato una propensione divinatoria nel presentire i guai. Promette cose che la gente non conosce. Dice che se affideranno i loro risparmi alla banca, potranno raddoppiarli in tre mesi, ossia quadruplicali in sei e in un anno immagini lei.>>
Zenone annusò il miasma del raggiro peggiore: quello fatto ai poveri. Si sentì riprecipitato ai tempi di Aurelio e della guerra a Loffredi.
<<È una truffa monsieur Zenone. Farà solo danni. Va fermato prima che rubi quel poco che la gente ha. Promette di trasformare il valore del deposito in equivalente in oro. Chi firma il contratto si impegna a non richiedere indietro i soldi per un anno. Io non ho soluzioni ma lei sa bene come fare. Confido nella sua saggezza.>>

Inizio Alphonsine e poi Daniel. Poi venne il turno di Jean e arrivò anche Caroline senza parlare di Mokila e tutta la sua famiglia. Tutti volevano ritirare i soldi che ogni mese lasciavano depositati da Zenone che rivalutava in dollari per tenerli al riparo dell’inflazione. Zenone cercò di dissuaderli ma fu inutile. Alla fine decise di riunire tutti sotto il grande mango suonando la campana che era attaccata alla magnolia in centro al cortile.
Guardava tutti negli occhi e loro guardavano Zenone. Spiegò che Purgias era solo un truffatore da strapazzo e faceva promesse che non avrebbe mai rispettato. Una volta raccolti tutti i  soldi se la sarebbe svignata di notte lasciandoli sprofondare nella miseria senza ritorno. Ma qualcuno ribatté che era una grande occasione e che Purgias aveva loro mostrato come era facile guadagnare: bastava lasciare i soldi a lui e sarebbero stati moltiplicati. E per convincerli aveva mostrato  le lettere e le foto della ricchezza accumulata dai suoi clienti di Kisangani, Kananga e perfino Beni. Fu una discussione lunga e complicata perché Zenone dovette ammettere che i sogni sono i peggiori avversari della ragione. Alla fine, facendo appello alla sua autorità da uomo senza paura, chiese a tutti di aspettare due giorni. Avrebbe incontrato Purgias per capire esattamente di cosa si trattasse e quali garanzie offrisse. Tutti erano convinti che Purgias fosse il miracolo  mandato dal cielo in quel Macondo africano che era Ngao; ma la parola di Zenone era come un baobab. Forte e possente. Autorevole e con un peso immenso.
Zenone non perse tempo perché in guerra aveva imparato che il tempo è solo una delle tante variabili che segnano il confine tra la vita e la morte. Chiamò Janbulani e gli disse di portare un messaggio a Purgias con il quale in modo gentile ma fermo lo invitava a cena per la sera stessa.
Janbulani ritornò con un messaggio dell’invitato. Si dispiaceva ma non poteva accettare. Se avesse trovato il tempo lo avrebbe fatto volentieri la settimana successiva.
Zenone richiamò Janbulani e scrisse un nuovo messaggio che era un presagio: “Signor Armando Purgias e tutto il resto di come si fa chiamare, lei stasera sarà mio ospite. Si prepari per tempo e disdica ogni altro impegno. Me ne sarà grato.”
Alle sette Purgias si presentò nella concessione ed era in preda ad una furia da marinaio scalmanato. Era un nano che urlava e strepitava senza ritegno non avendo appreso nulla dello spirito africano. Era impaziente di litigare con qualcuno per rivendicare un suo personale diritto ad essere rispettato come fosse un santo benefattore. Rifiutò sdegnosamente l’invito di Janbulani di aspettare in pailotte. Il vecchio gli rimandò uno sguardo di commiserazione: sapeva che il nano si stava avviando su una cattiva strada, la peggiore. Mettersi contro Zenone.  Purgias continuò a urlare, bestemmiare, insultando Zenone chiamando in causa perfino la sua povera mamma. 
L’uomo sudava sotto il sole di Ngao e il colletto della camicia denunciava il suo stato di eterno lottatore con i bagni e le docce. Aveva un viso solcato dalle linee della menzogna, un sorriso scialbo e nei suoi occhi galleggiava l’odio perenne verso un destino che lo aveva fatto nascere mezzo metro più basso di ogni altro uomo. Nzambe Ndo sentenziò che oltre ad essere veramente nano non ne possedeva nemmeno la virtù nascosta che tanti nani vantavano. Anzi si mormorava che si portasse a letto quel suo amico bianco che lo seguiva ovunque come un barboncino. Indossava una giacca troppo grande, lisa e unta, consumata sul collo e pantaloni troppo lunghi che pestava di continuo. Zenone lo osservò dal grande salone e facendo ricorso alle sue antiche conoscenze da guerriero sulfureo decretò che l’uomo era solo un maledetto nano che aveva il cuore troppo vicino, troppo vicino al buco del culo, come aveva scritto un grande poeta, quindi ne decretò l’inizio e la fine quella stessa sera. Uscì da una porta secondaria e andò dal Prefetto Pangala che lo stava aspettando perché tra loro si inviavano segnali premonitori. Pangala guardò Zenone sapendo già cosa aveva in mente.
<< Lo cacci via. Io non lo posso fare, ho un ruolo da difendere, devo salvare le apparenze, ma lei può. Nessuno se la prenderà con lei. Lo può anche uccidere. Per quel che vale. È solo un nano. Si ricordi solo di gettare il cadavere ai coccodrilli.>>
Nel frattempo Purgias, sempre più in preda ad una collera senza ritegno, entrò deciso in cucina. Si ritrovò faccia a faccia con il peggior nemico che potesse incontrare nel suo destino da jellato senza tempo e senza misura. Albertine impugnava il machete e stava facendo a pezzi un’antilope che i cacciatori gli avevano appena consegnato. Guardò il nano con i suoi occhi neri da regina di Saba e vi decifrò la sventura unita alla carognaggine.
<<Chi cazzo sei tu? Come ti permetti di entrare nella mia cucina?>>.
<<Serva di merda, dov’è il tuo padrone?>>
L’offesa la fece scattare come una tigre. Il colpo di machete staccò un pezzo di orecchio al nano che si mise ad urlare come un maiale sgozzato.  Albertine ne senti il fetore mentre cercava di fuggire ma lo bloccò contro il muro che dava sul salone con l’intenzione prima di sgozzarlo e poi farlo a pezzi dandolo in pasto ai cani del quartiere.
Quando Zenone entrò nella stanza lesse negli occhi della donna l’odio per l’uomo che stava per sgozzare e nell’uomo la indegnità della prossimità della morte. Albertine individuò nello sguardo di Zenone i segni premonitori della bestia feroce in caccia.
Il manrovescio di Zenone, che portava sempre l’anello d’oro con smeraldo che gli aveva regalato sua madre, si abbatté sul viso del nano con una forza da uragano tropicale. Pugias volò a terra come una pelle di fico e sentì il proprio sangue uscire dal profondo taglio che l’anello gli aveva procurato unirsi al dolore per il pezzo mancante di orecchio che gli aveva mozzato Albertine. Lo scarpone di Zenone iniziò a premere sulla carotide dell‘uomo che rantolava e chiedeva pietà.
<<Se io la uccido qui e adesso nessuno saprà mai nulla. Ucciderò lei e ucciderò anche i suoi compagni. E ucciderò tutti quelli che verranno a cercarla. Vi ucciderò tutti. Poi getterò i vostri corpi di merda nel fiume dove i coccodrilli faranno il loro lavoro. Ma lei è un uomo fortunato:  da tempo ho deciso che la morte è una compagna che non voglio più avere. Lei sa chi sono. E quindi non sfidi il destino. Lei se ne andrà ora e non tornerà mai più. Le dò tre ore di tempo per lasciare Ngao. Se la troverò ancora qui fra tre ore la consegnerò a Janbulani che la legherà ad un albero nella foresta. Qui le iene sono particolarmente affamate.>>
L’uomuncolo si alzò dolorante respirando a fatica. Albertine gli diede una pedata nel culo e Janbulani lo buttò come un sacco di immondizia in mezzo al cortile dopo aver liberato Juge, il ferocissimo pastore alsaziano che vegliava di notte sulla concessione. L'animale corse verso il nano con gli occhi iniettati di sangue mostrando i lunghi denti. Ad un ordine di Janbulani, Juge, come fosse dotato di un meccanismo,  si arrestò a meno di un centimetro dalla gola del nano che piangeva come un bambino.
La notte sentirono il camion che usciva dal villaggio; seppero qualche giorno dopo che al di là del fiume Purgias e il suo circo erano stati attaccati da uomini armati, catturati, fatti a pezzi e gettati in pasto alle iene.
Zenone chiese a Monsieur Socrates chi fosse stato.
<< Un uomo avido è sempre destinato a morire malamente perché ha seminato odio e miseria. Nessuno lo commisera. Poco importa chi lo ha tolto di mezzo. Ha fatto solo del bene.>>
<<Soprattutto se è un nano avido.>>
<<Bien sûr monsieur Zenone. Soprattutto se è nano e avido.>>

Risero e stapparono una bottiglia di bordeaux. E fecero festa con tutta la concessione.


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